Attualità

Tra passato e futuro, una resurrezione possibile per questa città?

Pier Girolamo Larovere
Il Venerdì Santo a Bitonto
La ricorrenza della Pasqua, nel secondo anno di pandemia, ci ricorda l'urgenza di una rinascita insieme spirituale, civile e sociale della nostra Bitonto
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Nelle ultime sei righe de L’artefice, Jeorge Louis Borges dice di un uomo che si propone il compito di disegnare il mondo: “Trascorrendo gli anni, popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di navi, d’isole, di pesci, di amore, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto”.

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Inevitabilmente si appartiene. Sempre e comunque. A qualcosa, a qualcuno. Si appartiene a una terra, alla gente di quella terra, alla sua Storia, alle sue storie, al suo passato, al suo presente. Si appartiene alle realtà, alle fantasie, alle passioni, ai sentimenti, alle ragioni, forse anche alle leggende, ai miti, ai riti. Rito è una parola che rinvia alla radice sanscrita –ri e, dunque, all’azione dello “scorrere” e dell’“andare”. Prescrizione di un “ordine”. Che stabilisce ciò che è permesso è ciò che è proibito. Ciò che è totem e ciò che è tabù. La memoria di questi riti, pagani o sacri, conferiva un senso all’esistenza dell’individuo, suggellando la sua appartenenza ad un gruppo, ad una comunità.

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Le feste hanno rappresentato, nella cultura e nella società meridionali, il tempo della condivisione religiosa dei culti dedicati ai Santi e delle celebrazioni mariane. Fin dall’affermarsi del cristianesimo, nei borghi e nelle città pugliesi, la festa si è inserita nel ciclo del lavoro, soprattutto dei campi, giacché tutta l’economia era prevalentemente agricola. Anche le città della costa – si pensi a Giovinazzo, Molfetta, Bisceglie, Trani, Barletta (ad ovest), a Bari, Mola di Bari, Polignano a Mare, Monopoli, Brindisi, Otranto (ad est) – sono contrassegnate da porti da dove prendevano il largo i prodotti coltivati in quelle terre.

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Il Cristianesimo recepì, nello scorrere dei secoli, il senso della visione contadina dell’esistenza. Lo stesso ritmo delle stagioni era scandito dalle diverse fasi delle attività lavorative che trovavano, nella semina e nel racconto, i due momenti d’inizio e di conclusione dell’intero ciclo produttivo. La ripresa della vegetazione, coincidente nella liturgia cattolica con la Pasqua, riaffermava, infatti, il ritorno alla vita, la speranza del lavoro e dell’abbondanza dei raccolti.

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Nella celebrazione liturgica pasquale, oltre al ringraziamento per la buona riuscita dell’anno agricolo, si esprimevano anche la richiesta di protezione per le sorti della comunità, l’ostentazione della gioia collettiva nella partecipazione ai riti religiosi, l’abbondanza del cibo sulla tavola del giorno festivo. I riti della Settimana Santa segnavano, anche a Bitonto, l’ultima fase di passaggio verso la rinascita e la celebrazione di un’abbondanza commemorata anche sulla tavola con il consumo della carne (vietata il Venerdì Santo, secondo un’antica pratica ascetica contro il peccato di gola), in particolare l’agnello, ed il trionfo di tutte quelle bontà a base di cereali che solo noi meridionali sappiamo fare: dolci di grano, di uova, di zucchero, di mandorle, taralli, focacce e scarcelle.

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A tutto questo appartenevamo. Semplicemente ci apparteneva. Poco importa se consapevolmente o inconsapevolmente. Anche se il tempo, gli accadimenti, le forme del progresso tecnologico e scientifico hanno mutato la fisionomia e la vocazione di questa nostra terra.

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Il poeta leccese Antonio Leonardo Verri, appartenuto a quella generazione di salentini che s’iscriveva nell’universo poetico del postmodernismo, ci ricorda che, anche se non ci facciamo caso, il tempo porta anche dimenticanza. Una volta, scrisse: “Cambia, cambierà di molto il volto della campagna, degli aggregati umani, di interi paesi: è cambiato dal dopoguerra ad oggi, cambierà ancora tra due generazioni. E cambieranno anche abitudini, modi di lavoro, rapporti”.

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Trentacinque anni fa, col suo sguardo “profetico”, Verri aveva visto lontano; aveva capito molto, quasi tutto, forse tutto.

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Con la pandemia è cambiato molto, quasi tutto, forse tutto. La mancanza dei festeggiamenti della Settimana Santa si ripropone, anche quest’anno, come l’impossibilità che un’idea possa lievitare, come il sentimento di un tempo cristallizzato a cui sembra conformarsi anche la nostra esperienza di vita.

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Stiamo letteralmente “patendo”, per la seconda volta, sulla nostra carne viva la dimensione del qui ed ora, impossibilitati a vivere quella tensione tra il presente e il futuro, tra la salvezza garantita da Cristo e la sua compiuta attuazione. È quello, infatti, il tempo decisivo della prova in cui l’appello di Dio misurerà la risposta dell’uomo.

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Ma la nostra comunità e, per converso, l’intera umanità giunta a un bivio della sua storia millenaria, è ancora capace di sentire l’anelito a una maggiore realizzazione dell’unione spirituale con Gesù? Non era già in fase di disfacimento un intero sistema religioso, in cui i misteri della fede erano preminentemente rappresentati, ma ben poco realizzati nelle nostre strade? Quel cristianesimo inconsapevole, nutrito da una fede quasi sempre magica e superstiziosa, non era già sull’orlo del tracollo?

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Anche nella Chiesa non è, forse, a lungo prevalso un attivismo frenetico che ha indotto i fedeli a una devozione sentimentalistica e a un atteggiamento da massa plaudente? Non dovrebbe essere compito dei cristiani ricordare al mondo che, senza la cura della tonalità emotiva del cuore, ci si perde in mille opere “pie” e “caritatevoli” che ci distraggono, ci deconcentrano e alimentano una fuga nevrotica da noi stessi?   

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Ogni volta che in questa città abbiamo insistito in modo unilaterale, teatrale ed estrinseco sulle rappresentazioni/celebrazioni, più o meno pompose e alienanti, dei misteri (la vestizione delle statue da portare in processione con abiti offerti dai confratelli come ex voto, l’allestimento del sepolcro di Gesù il Giovedì Santo e la realizzazione del Legno Santo posto sul Trofeo a forma di edicola votiva, di tempietto o di altare barocco), noi stessi in primis abbiamo allontanato le persone da quell’esperienza intima e reale del mistero di Dio nello Spirito di Cristo e dalla liberazione interiore che opera in noi il Risorto/Unto.

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In un mondo in cui sempre più mancano i riti, la connessione con la memoria è interrotta e gli uomini, dispersi e separati, sembrano perdere la capacità di abitare il tempo, di fare esperienza del sacro. Nell’epoca dell’ossessione per la velocità dello zapping, dei like su Facebook e Instagram, e del “distanziamento sociale”, dovremo come comunità impegnarci in una forma di concentrazione prolungata e tornare alla contemplazione che sempre presuppone concentrazione, silenzio e una certa quiete mentale.

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La crisi della fede è, innanzitutto, una crisi di spiritualità e di pratiche spirituali davvero efficaci. Dal punto di vista di chi scrive, tutti, cittadini e cittadine di Bitonto, siamo chiamati ad andare oltre questi deficit, in quanto solo ora, grazie al nemico Covid-19, essi ci sono apparsi in tutta la loro gravità. Solo questo impegno integrato può disporre tutto il nostro essere, lo spirito, la mente, il cuore a quella trans-figurazione sempre più profonda che Gesù Cristo vuole operare dentro ciascuno di noi, per trasformare ogni cellula del mondo.

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Un’irrinunciabile condizione di senso, dunque. Ecco perché i riti della Settimana Santa appartengono a Bitonto. Ci appartengono l’immagine dell’olio e dell’oliva, orgogliosa fin nello stemma della pianta sacra a Minerva, che, in questi giorni, degustano il nostro palato insieme a tutte le specialità sfornate dalla nostra cucina: gli occhi di Santa Lucia, i mostacciuoli, i sassanelli, le scarcèdde ossia i taralli a treccine con l’uovo centrale. Ci appartengono le immagini della nostra cultura contadina, le passeggiate tra fitte coltivazioni di ulivi e mandorli, le devozioni apportate da personaggi di rilievo nella vita delle comunità, le luminarie nel centro storico e le sagre dei prodotti tipici serviti sulle nostre tavole.

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Ci appartengono la concretezza delle storie, la realtà di ogni giorno che sorge e tramonta, l’alleanza nei valori in cui la collettività si ritrova, si riunisce, si riconcilia con sé stessa. Anche se abbiamo dimenticato. Perché il tempo è anche dimenticanza. Non c’è, quindi, parola più adatta di resurrezione che, in senso esteso, è intesa come “ricostituzione” e “ripresa di attività dopo lunga interruzione” a raccontare la speranza di chi non vuole arrendersi alla pandemia. Ecco perché questa terra ci appartiene. A questa terra rassomiglia il nostro volto, come nel racconto di Borges.

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lunedì 5 Aprile 2021

(modifica il 28 Giugno 2022, 13:42)

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Franco
Franco
3 anni fa

Siamo assistendo a una tragica diminutio, che però ci viene presentata come nuovo corso da una propaganda pervasiva di giornali e tv.

Franco
Franco
3 anni fa

Tra un po' inseriranno il termine pandemia pure nella Messa.